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FLANDRES Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 gennaio 2007
 
di Bruno Dumont, con Samuel Boidin, Adélaïde Leroux, Henri Cretel, Jean-Marie Bruveart, David Poulain. (Francia, 2006)
 
Quello di Bruno Dumont è un caso speciale; fatto apposta, pare, per mettere in crisi ogni cinefilo. Che l'autore dei già forti e già discutibili LA VIE DE JESUS, L'HUMANITE' e TWENTYNINE PALMS sia un cineasta vero (nel senso di dotato) bastano poche inquadrature. Che sia il profeta dalla personalità dominante che il cinema francese attende dai tempi della generazione Resnais, Rohmer, Sautet e compagni, come pretende una parte della critica transalpina, si può anche discutere. Ed il Gran Premio della Giuria all'ultimo Cannes ha contribuito a riaprire le piaghe.

Non sono le "storie" a colpire nel suo cinema , ma lo stile (il che, conveniamone, è un buon segno). Quelle di FLANDRES non fanno eccezione: secondo una tradizione non innovativa, raccontano del destino di giovani della campagna settentrionale che vengono sradicati dal loro quotidiano per essere proiettati in una guerra feroce e assurda in un deserto del sud. Intitolando però il suo film ad un paese dalla tradizione estetica fortemente radicalizzata da tempo, l'autore svela una parte dei propri intenti: costruire su dei contrasti formali, e di conseguenza su dei significati morali estremi. Ecco spiegati quei personaggi dalla fisicità ingombrante, dalla sensualità invadente, dal sentimentalismo rientrato che non sarebbero dispiaciuti ad un Rubens. Ma Dumont li filma svuotando il loro spazio, sfrondando suoni, musiche, dialoghi, espressioni: la violenza della carne, la crudezza delle pulsioni si scontra così con una visione dalla stilizzazione alla Bresson. In un vuoto della visione che da naturalistica si fa metafisica, ad indagare una condizione umana sicuramente sofferta.

Forte ed anche sgradevole che sia, comunque coerente, quella della prima parte si muta in tutt'altra sorta di barbarie quando si tratta di illustrare la guerra. Qui la bestialità dell'orrore assoluto riduce gli uomini a larve tremanti, ben distanti dalla tradizione di camerateria ed eroismo cara ai Fuller ed ai Walsh, vicina allo smarrimento assoluto del Kubrick di FULL METAL JACKET. Ma è pur vero che da scostante, eventualmente malsano che era, il film si fa più disordinato; e l'iconografia della violenza (uno stupro silenzioso, un'evirazione urlata) vieppiù estrema. Alimentando dubbi legittimi. Ma che, non dimentichiamolo, appartengono ad un'epoca consolata dalla pubblicità, anestetizzata dai telegiornali, rincretinita dagli show televisivi. Che certe verità non vuole, o non può più sentirsele dire. Soprattutto in un certo modo. Quello di un film nel quale lo spettatore faticherà a ritrovare la grazia quanto i personaggi. Ma è una fatica che non pochi considereranno ricompensata.


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